Agostino Pantano e i paradossi della giustizia: “Lotto per la libertà di stampa”

pantanoagostinodi Valeria Guarniera - "Ho scritto contro la 'ndrangheta e mi processano per ricettazione. Ho scritto di un professionista antimafia: mi ha chiamato mascalzone e bugiardo, l'hanno processato e assolto. Notizie mai smentite. Ai miei figli dirò: la mafia è una montagna di merda ma lo Stato, a sentirlo da vicino, a volte puzza assai". Non vuole generalizzare Agostino Pantano, mentre riassume in una frase – "scritta nel cuore della notte per quel maledetto non riuscire a dormire" - il paradosso delle vicende che lo vedono coinvolto: "Mi sono trovato a passare dalla condizione di giornalista intimidito, che lavorava insieme a magistrati e forze dell'ordine, alla condizione di giornalista vessato in un processo ingiusto". Giornalista disoccupato – "qui non paga nessuno" – Agostino mi racconta la sua storia davanti a un caffè, con la serenità di chi si sente nel giusto e la forza di chi ha l'urgenza di rivendicare i propri diritti.

"Qui c'è in gioco la libertà di stampa". Tutto inizia nel 2010 quando Agostino Pantano pubblica sulle pagine del quotidiano Calabria Ora un'inchiesta relativa allo scioglimento per mafia del comune di Taurianova, in provincia di Reggio Calabria. Dalla prima accusa, quella per diffamazione, Pantano esce indenne: "Quanto scritto rientra nell'esercizio del diritto di cronaca e di critica politica", le parole inequivocabili del gip di Cosenza. Eppure dall'assoluzione dal reato di diffamazione all'accusa per ricettazione il passo è breve: Pantano si sarebbe appropriato in modo illecito, traendone profitto, dell'atto che sanciva lo scioglimento del consiglio comunale. "C'è un accanimento che io reputo davvero assurdo. Per la stessa inchiesta vengo processato due volte: prosciolto per la diffamazione, adesso mi si accusa di ricettazione". La ricettazione rientra nel diritto penale ed è il reato di chi acquista, accetta od occulta, a scopo di profitto proprio o altrui, denari e cose d'illecita provenienza: "Nel processo noi dimostreremo che manca la ricettazione perché manca il furto di base. Secondo l'accusa io avrei tratto vantaggio da notizie secretate, ma la relazione che porta allo scioglimento per mafia di un consiglio comunale è un atto citato nel decreto di scioglimento. Un atto amministrativo non può essere una notizia secretata". C'è il riconoscimento da parte del gip di Cosenza, dunque, al diritto di dare la notizia. E c'è poi un'accusa di ricettazione che appare quantomeno particolare. C'è in ballo – Pantano lo ribadisce più volte – il diritto/dovere di informare che è minacciato non solo dalle organizzazioni criminali, ma dal sistema intero. E c'è da un lato la scarsa consapevolezza di un giornalismo che annaspa, dall'altro una visione manichea che, a detta di Pantano, è prevalente in Calabria ed impedisce di cogliere le sfumature, per cui tutto è bianco o nero e il mondo si divide in buoni e cattivi: "Io rappresento una storia irregolare, persino scomoda, che racchiude in sé diverse contraddizioni. Il problema è che in Calabria i problemi del giornalismo e dei giornalisti non interessano a nessuno. Il diritto all'informazione viene percepito dalla società calabrese come qualcosa di scontato. E' talmente facile informarsi che la gente lo dà per scontato. E l'attenzione viene richiamata solo nei casi estremi . A questo problema generale – continua Pantano nella sua analisi - bisogna aggiungere, specie in Calabria, il forte aziendalismo dei giornalisti stessi, cioè l'atteggiamento per il quale se un problema capita ad un collega di una testata concorrente, non ci si espone. Mi è capitato, purtroppo, di sentirmi dire: "Non mi posso occupare della tua storia perché se lo facessi avrei problemi con l'editore o con il direttore". Ovviamente non intendo generalizzare – sottolinea – ci sono colleghi che stimo e che mi hanno dimostrato la loro vicinanza. Però in Calabria esiste un'editoria fragile, che nasce non con lo scopo di informare ma con lo scopo di utilizzare i giornali come strumenti di potere. C'è una sorta di banditismo, di pirateria. A parte alcuni eccezionali casi di giornalismo mosso dalla passione e dalla correttezza, la situazione non è buona. Ed è assurdo che le associazioni, la società civile, i gruppi organizzati, sui miei casi non abbiano detto nulla. Un silenzio tombale".

Già, Pantano ha usato il plurale – "i miei casi" - perché c'è una seconda questione che lo vede protagonista. Riguarda l'antimafia e quel coraggio di schierarsi che in pochi hanno davvero. Me la racconta con il caffè è ancora lì, ormai tiepido, mentre le parole scorrono come un fiume in piena difficile da arginare ...

"C'è un muro di gomma attorno alle associazioni antimafia". Chi ha avuto modo di parlare con Agostino sa bene che le parole non lo spaventano: le dice e se ne prende la responsabilità. Così, senza tanti giri di parole, mi racconta la seconda vicenda che lo vede coinvolto. "Sono parte civile in un processo in cui Giovanni Pecora, Vicepresidente della fondazione antimafia Antonino Scopelliti, risponde di diffamazione ai miei danni, a mezzo stampa e continuata. Al centro una mia inchiesta sulla residenza della famiglia Pecora nel palazzo di un boss del paese. Sono stato chiamato mascalzone, sono stato insultato sui social, ma il Tribunale di Palmi ha assolto Pecora per non aver commesso reato. Un'inchiesta mai smentita – spiega Pantano - e anzi ripresa successivamente da altri organi di informazione, che metteva in evidenza la doppia condizione di leader dell'associazionismo antimafia e inquilino - insieme al figlio Aldo, presidente dell'associazione "E adesso ammazzateci tutti" – nella casa di un mafioso". Per quanto riguarda il processo, Pantano aspetta di leggere le motivazioni che hanno portato all'assoluzione: "Se chiunque può andare su internet e diffamare un giornalista, senza smentire tra l'altro il fatto in questione, siamo alla barbarie. Mi sono costituito parte civile per questo motivo: per difendere non solo la mia onorabilità come persona e come professionista, ma per dire alla nostra categoria "Svegliamoci". C'è però un altro livello che, secondo Pantano, risulta sommerso e non fa altro che alimentare un certo modo di fare e di pensare. Al centro il silenzio – "colpevole o addirittura complice" – di una parte dell' antimafia: "Esiste una certa antimafia che mentre andava in piazza a manifestare con i giovani a vendere l'idea di una Calabria che può rinascere, era contemporaneamente residente nel palazzo di un boss. Ora, io non dico che è un reato. Ma è una situazione quantomeno sconveniente, inopportuna. I giornalisti non devono cambiare il mondo. I giornalisti devono contribuire a migliorare la conoscenza dell'opinione pubblica. Devono informare. Quando si parla di mafia, poi, non si può essere neutrali: bisogna schierarsi. In quel caso immaginavo che l'antimafia vera, che in Calabria esiste, mi sarebbe stata vicina, mettendo all'angolo chi prende in giro la speranza della gente. Puntando il dito contro l'antimafia di facciata, io pensavo che quella vera avrebbe isolato quella falsa. Invece no. Il silenzio. E lì ho capito come, in alcuni ambienti insospettabili in Calabria, ci sia una sorta di pax tra le associazioni. Non c'è l'interesse a fare emergere il buono, il lato pulito. Una pax armata che in nome di una presunta rete delle associazioni – presunta perché poi tra di loro sono dilaniate – a volte preferisce girarsi dall'altra parte. Ripeto, non intendo generalizzare. Registro una situazione che vivo sulla mia pelle. Il silenzio a volte può essere assordante".

Ma Pantano non vuole dare un messaggio negativo. Né generalizzare. Conclude con un sorriso, che però non riesce a celare l'amarezza: "Io faccio il giornalista. E sono tranquillo perché in entrambe le vicende ho fatto semplicemente il mio mestiere".