Perché il “caso Lamezia” entra nelle nostre vite

Mascaro Paolo nuova 20 novembredi Mario Meliadò - Scrive oggi "Il Sole-24 Ore" che «l'affidamento diretto opaco rivela l'infiltrazione mafiosa». Ciò che il titolista lascia nella penombra – e che però svela l'articolo di Paola Maria Zerman – è il riferimento alla sentenza numero 6435 del 26 settembre scorso, con cui il Consiglio di Stato (presidente, Franco Frattini) ha rovesciato la sentenza del Tar calabrese, riconfermando lo scioglimento del Comune di Lamezia Terme.

Si evidenzia nel verdetto che dalle indagini della Commissione d'accesso «erano emersi elementi e circostanze indicative della sussistenza d'infiltrazioni mafiose nell'ambito dell'Amministrazione comunale», come pure la «permeabilità di quest'ultima agli interessi dei sodalizi criminali».
Come sia finita, è noto: il 22 novembre del 2017 il Comune del fondamentale centro del Catanzarese venne effettivamente sciolto per mafia. Ma l'«atto dissolutorio», per usare il giuridichese del dispositivo, fu impugnato dagli ex amministratori lametini davanti al Tar del Lazio per l'insussistenza dei presupposti previsti dall'articolo 143 del Testo unico Enti locali per lo scioglimento, e in particolare di «concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata». Il provvedimento, lamentarono i ricorrenti, oltre a «non indicare in maniera puntuale condizionamenti e collusioni determinanti l'alterazione del procedimento di formazione della volontà dell'Ente, degli organi elettivi e il pregiudizio alla sicurezza pubblica», avrebbe bellamente ignorato «l'intensa attività della Giunta per contrastare il fenomeno mafioso».
E il 22 febbraio scorso i magistrati amministrativi diedero ragione ai ricorrenti, ravvisando «assenza di univocità e concretezza delle evidenze utilizzate».

L'11 aprile successivo, però, il Consiglio di Stato accolse la richiesta di sospensiva (dapprima, inaudita altera parte; pronunciamento confermato anche dopo aver sentito la controparte). "Sotto la lente", gli appalti per i servizi di mensa scolastica, manutenzione del verde pubblico, manutenzione stradale.
Diversamente dal giudice di primo grado, i magistrati amministrativi asseriscono «vi fosse un vero e proprio sistema» nei fatti «in grado di aggiudicare gli appalti sempre alle medesime imprese attraverso una rotazione di queste e, comunque, attraverso il meccanismo delle proroghe dell'appalto, che avrebbe consentito a queste il sostanziale recupero del ribasso offerto in sede di gara».
In particolare, nessuno obietta «che mai nessuna impresa ha vinto due diversi appalti nei 29 mesi sotto la disciolta Amministrazione». Il punto però è che il Tar laziale avrebbe «erroneamente svalutato» la «significatività» dei fatti contestati nell'atto di scioglimento.

Rileva ad esempio il Consiglio di Stato quanto sia stato avventato non attendere la scadenza del termine di 30 giorni previsto per l'acquisizione della documentazione antimafia, finendo per affidare il servizio a una società «inquinata da grave condizionamento mafioso», il Cardamone Group, che peraltro «da moltissimi anni continuava a svolgere detto servizio», anziché attendere opportunamente la certificazione antimafia.
...In effetti, l'appalto era stato assegnato al Cardamone Group su base triennale nel gennaio 2017, il 27 febbraio successivo era stata dichiarata l'efficacia dell'aggiudicazione: ma giusto due mesi dopo (il 28 aprile) era intervenuta interdittiva antimafia, circostanza che agli occhi del Consiglio di Stato rende imperdonabile l'aggiudicazione «troppo frettolosamente disposta».
Inevitabile l'istantanea revoca dell'affidamento del servizio-mensa: ma quel «frettoloso e sospetto atteggiamento» al Ministero è apparso intenso «a favorire gli interessi» del Cardamone Group, e secondo i giudici amministrativi «mostra una grave compromissione dell'azione amministrativa nel delicato settore degli appalti pubblici».

Quanto poi all'Impresa di costruzioni Pietro Torchia, «significativa» la circostanza che dopo l'aggiudicazione di un appalto da 270mila euro per la manutenzione stradale nell'agosto 2016, alla fine dello stesso anno (mesi di novembre e dicembre) alla stessa ditta andò un affidamento diretto di oltre 40.000 euro, «soglia di rilievo eurounitario» per tali affidamenti, quando il titolare secondo le forze dell'ordine «è persona gravata da numerose segnalazioni all'Autorità giudiziaria per diverse fattispecie di reato e ha rapporti di frequentazione con soggetti riconducibili alla locale criminalità organizzata», mentre alcuni dipendenti «sono indagati per indebita percezione d'erogazioni a danno dello Stato».

E «che dunque l'ipotizzato meccanismo d'assegnazione di appalti di lavori e servizi sempre alle stesse imprese sussista», per il Consiglio di Stato, «emerge chiaramente». Né rileva che non vi sia prova dell'appartenenza diretta di politici o dirigenti comunali lametini alle cosche del territorio: già «una gestione poco lineare e trasparente delle procedure a evidenza pubblica costituisce terreno fertile – scrivono i magistrati amministrativi – per l'inserimento della criminalità organizzata», così come «la disorganizzazione e il disordine amministrativo».

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Del resto, si legge nel dispositivo, accanto a concretezza, univocità e rilevanza degli elementi volti a indicare la sussistenza del «condizionamento criminale», la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato «ha osservato che il condizionamento può rilevare come fattore funzionale, allorquando, cioè, le cosche incidono sulla gestione amministrativa dell'Ente, ricevendone sicuri vantaggi, e solo una valutazione complessiva, contestualizzata anche sul piano territoriale, può condurre a un appropriato esame della delibera di scioglimento» quale «valutazione» frutto di una «bilanciata sintesi e mai mera sommatoria dei singoli elementi stessi».
Quel che i magistrati amministrativi denominano poi «il nesso d'interdipendenza, secondo la logica della cosiddetta probabilità cruciale».

Il 'succo' del discorso – come posto in rilievo dal 'Sole' – è che appalti caratterizzati da scarsa trasparenza e ripetuti affidamenti diretti sempre agli stessi soggetti economici sono elementi che il Consiglio di Stato identifica come «rivelatori di un'intera struttura amministrativa e politica ormai asservita agli interessi mafiosi» e tali da giustificare appieno lo scioglimento dell'Ente.
Una procedura, scrive opportunamente la Zerman, che l'art. 143 del Tuel disciplina quanto alla verifica della sussistenza degli elementi soggettivi (collegamenti tra organi amministrativi ed elettivi e cosche) così come di quelli oggettivi (distorsione delle attività dell'Ente in grado da pregiudicarne imparzialità e buon andamento); tutto questo sul piano squisitamente amministrativo, salve «ulteriori responsabilità penali dei singoli amministratori o dirigenti».

E la polemica sul carattere ingiustificatamente draconiano della misura, a fronte spesso di nessun arresto e ancor più di frequente di nessuna condanna anche a fronte d'eventuali fattispecie di reato contestate, e scaturigine dello scioglimento? Una "terza via" molto importante per temperare «l'impossibilità d'applicare misure intermedie» era stata introdotta dal "decreto Salvini" (dl numero 113 del 2018) prospettando la possibilità per il Prefetto di fornire un «supporto tecnico-amministrativo» agli Enti vittime d'infiltrazioni dei clan, anche a forza di surroghe tramite commissari ad acta. Il 24 luglio scorso, però, è intervenuto il pronunciamento numero 195 della Corte costituzionale, che ha cassato la «genericità dei presupposti» della previsione legislativa, passibili con eccessiva probabilità di generare lesioni all'autonomia degli Enti locali: vista la "vis" con cui molti esponenti politici, anche in Calabria, da tempo vanno contestando il "decreto Taurianova" sugli scioglimenti per mafia, la riformulazione di quel precetto legislativo – per come auspicato dallo stesso Giudice delle leggi – potrebbe risultare un utile compromesso "non al ribasso".